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Gli scontri in Kenya
Dall'Italia, il punto di vista di Padre Giulio Albanese

"Sfogliando i giornali italiani si ha l’impressione che quanto sta accadendo in Kenya abbia una chiara matrice etnica" ha detto Albanese all’Agi che aggiunge: “ma a voler leggere bene le tragiche vicende post-elettorali, lo scenario è diverso e "vede in gioco il futuro assetto degli equilibri nella regione del Corno d’Africa… Nairobi rappresenta, sin dai tempi della ’guerra fredda’, il fulcro di tutte le operazioni umanitarie sia sul versante somalo sia su quello del Sudan meridionale" e che "dalla capitale keniana sono state coordinate con lo stesso fine, almeno in parte, delicate operazioni d’intervento nei Grandi Laghi". La conferma di questa centralita’ strategica e’ nel fatto che "lo scellino keniano rappresenta da decenni una delle divise africane più robuste, mentre Nairobi si è imposta come centro commerciale e polo finanziario al punto da essere oggetto, in più circostanze, di scandali legati alla corruzione dei governi sia di Daniel arap Moi sia di Mwai Kibaki". E’ evidente quindi che i futuri sviluppi politico-istituzionali nell’ex-colonia inglese, che fino a ieri era una sorta d’isola felice, "rischiano di compromettere l’intero scacchiere geo-politico, già contaminato da un processo che alcuni osservatori hanno definito di ’mediorientalizzazione’" afferma Albanese.
La contrapposizione tra Kibaki e Odinga rischia quindi di ripercuotersi drammaticamente sulla situazione nell’intero Corno d’Africa.
"Il Kenya", prosegue padre Albanese, "potrebbe trasformarsi non tanto nel Rwanda del ’94, ma in un paese spaccato in due come lo è la Costa d’Avorio con un nord islamico e un sud di tinte diverse. In Kenya la divisione sarebbe verticale tra i ’luo’ di Odinga e i ’kikuyu’ di Kibaki".
L’agenzia Agi anticipa anche un articolo che esce sull’edizione odierna del quotidiano cattolico “Avvenire” in cui padre Albanese aggiunge che la crisi del Kenya - "uno dei pochi paesi del Corno d’Africa uscito indenne dalla cronica conflittualità della regione", era nell’aria da tempo. Almeno dal 2005, quando il progetto di riforma della Costituzione -in vigore dall’indipendenza del 1963- proposto dal presidente Mwai Kibaki, fu bocciato in un referendum... su quella proposta Kibaki si giocò tutto, ma vinse il suo ex-alleato, Raila Odinga, che aspirando alla carica di primo ministro non gradiva una riforma costituzionale che rafforzava i poteri del presidente.
"Nel 2002, dopo 40 anni di monopolio delle istituzioni, fu finalmente mandato all’opposizione il Kanu (Kenya Afican National Union), partito al potere fin dall’indipendenza " scrive ancora Albanese: "Si trattò di un avvenimento storico per un paese che fino a quel momento non aveva conosciuto alternanza di governo. Il vincitore di quella tornata elettorale fu Kibaki, leader di una grande coalizione denominata Narc (National Rainbow Coalition) che riuniva tutte le componenti socio-politico-religiose strenuamente avverse allo strapotere del presidente uscente, Daniel arap Moi. Quindi, in linea di principio, le elezioni del 27 dicembre scorso consentivano ai keniani una verifica sull’operato di Kibaki dopo cinque anni di multipartitismo". Ma gli equilibri erano già saltati al referendum, quando Odinga lasciò la coalizione e fondò l’Orange Democratic Movement. "Il messaggio popolare al referendum fu chiaro: Kibaki non stava mantenendo le promesse che aveva fatto in campagna elettorale, cioè battere la corruzione, prima di tutto, e risollevare le sorti economiche di una nazione saccheggiata dall’oligarchia del vecchio Moi".
Lo stesso messaggio che ci si aspettava per queste contestate presidenziali che hanno visto Kibaki ricandidarsi "con il sostegno proprio di quei personaggi che nelle precedenti elezioni erano stati i suoi principali rivali: Moi, che ha malamente guidato il paese per 24 anni, e Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente, che nella tornata del 2002 era il candidato del Kanu".
03/01/2008 - Fonte: MISNA

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