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Kenya: mediazione Musyoka?
L’analisi del direttore di Nigrizia: padre Renato Kizito Sesana (da Nairobi)
I quasi 300 morti accertati che abbiamo visto in questi giorni sulle strade del Kenya sono il risultato di una politica malata, fondata sull’idolatria del potere e dei soldi, una “religione” che è stata alimentata dagli uomini politici keniani fin dall’indipendenza.

Mentre scrivo, il mattino del 2 gennaio, la tensione per le strade di Nairobi, in particolare di Kibera, è diminuita. Evidentemente la gente ha bisogno di tornare alla vita normale, di guadagnare qualche soldo. Ma le notizie che giungono dall’ovest del Kenya continuano ad essere allarmanti. D’altro lato i problemi che hanno dato origine alle violenze rimangono, e nelle prossime settimane, quando il parlamento dovrà essere convocato, molti nodi politici verranno al pettine, ed è probabile che la tensione torni a salire.
A questo punto la possibilità che ci siano stati dei brogli elettorali appare probabile. Ora emerge chiaramente che durante il giorno dell’elezione ci sono state intimidazioni, non necessariamente violente, e che in parecchi seggi sono stati comperati dei voti. Questo stato di cose riguarda entrambi i partiti che erano in corsa per le presidenza – il Partito di unità nazionale (Pnu) del presidente uscente Mwai Kibaki e il Movimento democratico dell’arancia (Odm) di Raila Odinga –, ma non dovrebbe aver influenzato i risultati in modo determinante, anche se è un’ovvia indicazione di un atteggiamento non democratico. Determinanti, invece, potrebbero essere stati dei brogli al momento della conta generale dei voti. Ma al momento nessuno è stato capace di dare prove chiare e attribuire responsabilità precise. Personalmente ho sentito persone che raccontano di voti comprati dall’Odm sulla costa. Ma queste persone non sono disposte a esporsi. E l’Odm non ha finora esibito i documenti, che ha assicurato di possedere, che proverebbero brogli su larga scala al momento della conta.

Questa crisi l’abbiamo vista arrivare, ma nessuno ne aveva capito la potenziale distruttività e la carica di tribalismo che stava prendendo. I sondaggi che sono stati pubblicati dai media keniani negli ultimi mesi facevano vedere come la gente continuasse ad avere una sostanziale fiducia nel presidente e sempre meno fiducia nel suo partito. Mentre molti che erano favorevoli ai cambiamenti promessi dall’Odm erano meno entusiasti verso Raila, percepito come un uomo politico con tendenze dittatoriali. Così oggi i risultati delle elezioni, prendendo come autentici quelli ufficiali, rendono il paese ingovernabile, con un presidente che accentra molti poteri, ma che è in minoranza in parlamento, e che quindi non può governare. E con una rivalità tribale che è sfuggita probabilmente anche al controllo di chi l’ha scatenata.

E le due parti sembrano ormai fisse su posizioni che non ammettono il dialogo. Un amico giornalista kikuyu, che mi pare possa rappresentare una mentalità comune, la vede così: «Io ho votato nel mio collegio elettorale per un parlamentare dell’Odm, perché credo che l’Odm possa avere in parlamento una funzione importante di controllo su un possibile strapotere del presidente, ma non accetterei mai Raila come presidente. Con lui al potere fra cinque anni non avremmo elezioni truccate: non avremmo elezioni, punto e basta».
Come sbloccare la situazione? Innanzitutto, è importante che Kibaki e Raila accettino di muoversi nella legalità, rispettando la legge e la costituzione vigente, rinunciando entrambi alle manifestazioni di piazza che, inevitabilmente, provocherebbero morti e feriti. E servirebbero solo a inasprire le divisioni e creare un piedestallo per i due leader: “I miei morti sono più dei tuoi”.

Il parlamento, così come risulta dai risultati elettorali annunciati, deve essere convocato e la giustizia deve lavorare indipendentemente per esaminare le reciproche accuse di brogli. Ma non basta. Kibaki deve accettare una seria revisione delle elezioni e che i voti siano ricontati alla presenza di un monitoraggio internazionale. Non c’è altra alternativa, se Kibaki vuole garantire la propria legittimità.

Ma la cosa più importante è che Kibaki e Raila dialoghino. Kibaki finora ha reagito con la repressione, Raila punta sulle manifestazioni di piazza – una è prevista domani 3 gennaio a Nairobi – che gli diano legittimità. Ma è una strada di confronto che non può portare lontano e che rischia di bloccare il paese in un conflitto irrisolvibile. La diplomazia internazionale deve aiutare il Kenya; Gran Bretagna e Usa devono aiutare ad avviare il dialogo; l’Unione europea può avere un influenza importante. L’Unione africana potrebbe aiutare a prender tempo. Tutte le possibili pressioni devono essere fatte su queste due persone e i partiti che rappresentano affinché accettino il fatto che devono collaborare e che il Kenya è più importante delle loro carriere politiche.
Ma in ultima analisi la pace non può venire dal di fuori, deve nascere dal di dentro, per poter superare definitivamente le difficoltà e gli odi seminati negli ultimi mesi e nelle ultime settimane. Un’ipotesi possibile sarebbe quella di recuperare il “terzo uomo”, Kalonzo Musyoka (etnia kamba), che ha corso per la presidenza ottenendo quasi mezzo milione di voti. Appartiene a un’etnia minoritaria, non ha mai usato né pubblicamente né privatamente, da quanto si sa, il linguaggio dell’odio tribale, ha competenza e conoscenza della situazione politica del paese. Potrebbe diventare il mediatore interno ideale, capace di far muovere avanti un processo di riconciliazione che non può essere imposto dal di fuori.
Il dialogo fra le due parti deve cominciare al più presto. Non si può aspettare. Bisogna evitare la manifestazione di piazza di domani. Se questa manifestazione dovesse andare avanti, che il governo si opponga o no, non ci sono dubbi che scatenerà un nuovo ciclo di violenza e morte che renderà ancora più difficile la possibilità di una riconciliazione.

Kibaki e Odinga: le radici dello scontro

Per capire l’attuale contesto politico keniano bisogna risalire almeno al 1982, quando, dopo un tentativo di colpo di stato, l’allora presidente Daniel arap Moi ha trasformato il Kenya in una dittatura brutale, pur mantenendo alcuni elementi di facciata che lo potevano spacciare per una democrazia. Il tutto, è bene notare, sempre restando fedele alleato (e protetto) della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, nonché amico dell’Occidente.

Sarebbe troppo lungo seguire dal 1982 a oggi la carriera politica dei due principali protagonisti della crisi odierna, Mwai Kibaki e Raila Odinga. Basti dire che entrambi sono stati alleati di Moi e avversari di Moi, alleati con tutti e avversari di tutti, anche tra di loro. Per entrambi non si può parlare di una posizione ideologica, ma sempre e solo di alleanze per arrivare al potere. Entrambi hanno una rilevantissima fortuna personale, che in qualche caso non esitano a ostentare. È famosa la Hummer di Raila, un fuoristrada che costa diverse decine di migliaia di euro e che fa due chilometri con un litro di benzina, usato da Raila per visitare Kibera, il più grande slum di Nairobi, che fa parte del suo collegio elettorale.

Credere che questi due signori siano motivati dal desiderio di servire il paese o che siano paladini delle democrazie e dei poveri, è cadere vittime di una pericolosa illusione. Il loro atteggiamento è descritto bene nell’editoriale del 1 gennaio del Nation, il maggiore quotidiano di Nairobi: « Né il Pnu né l’Odm durante le campagne elettorali hanno dimostrato particolare controllo o rispetto per la stabilità del paese. Il mantra sembra essere stato: o lo governiamo o lo bruciamo». L’incontrollata sete di potere, e di proteggere col potere le ricchezze più o meno legalmente acquisite, è il motore dell’attività politica di questi partiti.

Detto questo, bisogna fare delle distinzioni. Mwai Kibaki da quando è andato al potere, cinque anni fa, ha fatto delle riforme importanti: l’istruzione gratuita per gli otto anni di scuola elementare; il garantire la libertà di espressione e di stampa (per cinque anni non abbiamo avuto prigionieri politici e tanto meno assassini politici come avveniva con Moi, e mai in Kenya una campagna elettorale è stata libera come l’ultima…); una serie di provvedimenti economici che hanno fatto ripartire l’economia, che negli ultimi anni di Moi aveva una crescita negativa e, invece, dal 2004 è cresciuta di oltre il 5 % all’anno.

Due i grandi fallimenti di Kibaki. La corruzione pervasiva, ereditata dai 24 anni di malgoverno di Moi, non è stata combattuta con l’efficacia e la determinazione che il cittadino comune avrebbe voluto. È stata si ridotta di molto, ma resta un cancro che pervade tutta la società keniana. Inoltre, la nuova costituzione, promessa da Kibaki appena eletto, non è stata ancora approvata, e la conseguente promessa di decentralizzazione del potere non è stata onorata.

Dal canto suo Raila Odinga, andato al governo come membro della coalizione di Kibaki cinque anni fa, è poi passato all’opposizione sulla questione della nuova costituzione. Ed è riuscito a far bocciare la costituzione proposta da Kibaki con un referendum due anni fa. L’Odm è nato dallo slancio di aver fatto bocciare la costituzione e da allora Raila ha accentrato il potere del movimento e ha esasperato la questione tribale. Da oltre un anno ormai la parola d’ordine fra i luo – l’etnia di Raila e che ha un peso proponderante nel Odm, come, invece, i kikuyu, l’etnia di Kibaki, ce l’ha nel Pnu – è questa: «È arrivato il nostro turno di governare il paese». Per poi trasformarsi più recentemente in «se perdiamo le elezioni vuol dire che ci sono stati brogli».

Raila, poi, durante la campagna elettorale ha giocato due carte pericolose. Prima ha promesso di implementare il “majimboism”, una specie di regionalismo che era stato negli anni novanta proposto da Moi e rifiutato da Raila. Non ha specificato però i contenuti di questo “majinboism”, lasciando così temere, anche riferendosi alla storia personale di Raila, che si trattasse concretamente di una specie di rigido regionalismo che avrebbe frazionato il paese. Successivamente ha firmato con i notabili della comunità musulmana un “Memorandum of Understanding” (MoU) i cui contenuti non sono mai stati divulgati con chiarezza. I suoi avversari, e molti cristiani, considerano comunque questo MoU un errore, perché propone una distinzione fra cittadini keniani basata sull’appartenenza religiosa. E questo è già un fatto contro la costituzione in vigore, così come contro il progetto di costituzione dell’Odm.

Kibaki e il suo gruppo non hanno trovato di meglio che reagire a questa campagna alzando steccati e lasciandosi imprigionare nella trappola degli stereotipi etnici. Questa etnicizzazione della politica è responsabilità esclusiva dei leadear. Per citare ancora l’editoriale del Nation, indirizzato a Kibaki e Raila: «Non c'è mai stata tanta animosità fra gente che ha vissuto insieme per molti anni come buoni vicini. Il caos che stiamo vivendo è il prodotto dell’elite tribale, economica e politica che si identifica con voi».

Che l’aspetto etnico sia diventato centrale non lo si può negare. Inutile girare intorno al problema. Odinga in primo luogo, ma anche Kibaki e il suo partito, negli ultimi tre anni, per ragioni di opportunità politica personale, hanno fatto tutta una serie di passi intenzionali, e a volte magari solo passi sbagliati, che hanno alimentato l’animosità etnica.

Entrambi i partiti usano saltuariamente, soprattutto nei momenti critici, l’appoggio dei “mungiki” e delle squadre organizzate e pagate di giovani disoccupati e disperati. I mungiki sono nati all’inizio degli anni Novanta come una comunità di kikuyu che voleva tornare alla religione ancestrale, la venerazione di Ngai (Dio) rappresentato dal monte Kenya, ecc. Lentamente questo gruppo è degenerato in una specie di piccola mafia che a Nairobi ha controllato, per esempio, alcune della linee di trasporto, e che riesce a mobilitare gli adepti anche per azioni violente e criminali. In questo gruppo ci sono ora anche non-kikuyu, ma tendenzialmente si identifica con la difesa delle comunità e degli interessi kikuyu. A questa setta parareligiosa si contrappongono le squadre di giovani disoccupati di Kibera controllate da Raila Odinga e delle quali Raila si è sempre servito per provocare disordini di piazza, più di una volta all’evidente ricerca dei morti da poter poi usare per i propri scopi.. Sono i due volti peggiori dello scontro in atto.

Non ho elementi certi per capire che cosa sia successo fuori Nairobi: le notizie sono frammentarie e sempre di parte. A Nairobi, però, posso dire che la maggioranza delle vittime di questi ultimi giorni non è stata uccisa negli scontri con la polizia, ma da azioni organizzate da questi due gruppi. Così a Kawangware, dove i kikuyu sono prevalenti, hanno attaccato case e piccole attività artigianali dei luo; l’opposto è avvenuto a Kibera. Purtroppo, come sempre capita, a farne le spese sono le persone inermi e innocenti. Il mattino del 31, dopo la notte di peggiori violenze che siano finora avvenute a Kibera, un amico Kamba mi raccontava terrorizzato di aver visto a poche decine di metri dalla sua baracca di Kibera i corpi di quattro suoi vicini e conoscenti, kikuyu, che erano stai sgozzati con un coltello da cucina. Lo stesso sta avvenendo nell’est del Kenya, come mi ha testimoniato una volontaria italiana: i negozi e le case dei pochi kikuyu che vi vivono sono metodicamente attaccati e bruciati e i proprietari “invitati” e rientrare nella loro regione. Un “majimboism” della peggior specie.

L'intervista telefonica da Nairobi a padre Daniele Moschetti.
03/01/2008 - Fonte: Nigrizia

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