Ha il sorriso di chi ha visto la morte in faccia e ha deciso che non sarebbe stata quella immagine a marchiare il resto della sua esistenza. Quando Marguerite Barankitse aveva 23 anni e insegnava nel vescovado di Ruyigi, il suo Paese è precipitato nella guerra civile tra etnie. Una mattina d'ottobre del '93 ha assistito al massacro di 72 persone; Maggy ha deciso di accogliere i 25 bambini scampati alla strage, che si sono velocemente moltiplicati: dopo un mese superavano quota 200, senza distinzioni etniche. «In quel momento ho capito che l'odio non poteva vincere», racconta. Per questo viene definita “l'angelo del Burundi”. E i suoi «figli», come lei stessa li chiama, non hanno smesso di aumentare: in questi anni di impegno nella “Maison shalom” (Casa della pace), centro di accoglienza che si è via via ingrandito, ne sono passati più di 10 mila. Testimone di eccidi, Barankitse è stata più volte minacciata di morte, ma continua a promuovere nel suo Paese e nel mondo il valore della riconciliazione.
Ha ricevuto molti riconoscimenti internazionali per la sua missione, raccontata dalla giornalista francese Christel Martin nella biografia “
Madre di diecimila figli” (Piemme, 2010). L'8 giugno le è stata consegnata a Roma dall'Archivio disarmo la Colomba d'oro, quale «riconoscimento a una donna che ha dedicato la sua vita agli altri, riuscendo a trasformare l’odio in un’esperienza d’amore». Inoltre il premio “Archivio disarmo per la pace-Colombe d’oro”, giunto alla 27a edizione e conferito da una giuria presieduta da Rita Levi-Montalcini, intende sostenere anche la “Campagna Noppaw” per l’assegnazione del Nobel per la Pace 2011 alle donne africane.
I primi bambini, accolti nel '93, sono diventati uomini e donne: le sono rimasti vicini?
Tre su quattro dei miei più stretti collaboratori sono “miei figli”, diventati medici e assistenti sociali, infermieri e insegnanti, esperti di economia. Ormai nel centro accogliamo i piccoli delle seconde generazioni, e i figli dei miei figli. Per me il sogno è diventato realtà: veder crescere una nuova etnia senza distinzioni di razze che non vuole più la guerra, che ha la colonna vertebrale solida, sa stare in piedi e dire quello che pensa, senza aver paura.
Chi sono i minori accolti oggi alla “Maison shalom”?
Non più gli orfani di guerra, ma dell'Aids, e poi ex bambini soldato, ragazzi di strada, i piccoli nati in carcere. Cerchiamo i loro parenti, per riunirli alle famiglie d'origine e ridare loro una dignità, oltre che un'identità. Come esprime il logo dell'associazione, disegnato da uno dei bambini accolti, la colomba che porta nel becco un ramoscello d'ulivo vuole annunciare la pace. E noi desideriamo che ogni bambino accolto possa fare della sua vita un sogno.
Dove sono presenti ora le “Case della pace”?
In tutto il territorio del Burundi, con attività educative, sanitarie, di inserimento lavorativo. Abbiamo aperto centri anche in Congo e Ruanda, nella regione dei Grandi laghi, anche grazie ai nostri benefattori e amici, che ci sostengono anche dall'Italia. In sintesi, mi occupo della vita, per dire no all'odio fratricida e alla guerra, sì alla vita e all'amore.
Che messaggio lancia la “Maison shalom” al suo Paese e non solo?
Le autorità burundesi mi hanno concesso il passaporto diplomatico e mi chiamano “la mamma nazionale”. A volte quello che faccio può disturbare qualcuno, ma cerco di non farmi condizionare: quello che faccio non è il mio lavoro, ma l'opera di Dio. Io sono soltanto uno strumento per comunicare l'amore di Dio; la nostra chiamata è renderlo visibile.