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I sudanesi non meritano un’altra guerra
di don Giulio Albanese
Sono oltre vent’anni che seguo assiduamente le faccende sudanesi. Da quando cioè fui invitato a visitare la diocesi di Rumbek, da monsignor Cesare Mazzolari, compianto vescovo di quella chiesa ai confini del mondo. Un’esperienza davvero indimenticabile che ha profondamente segnato la mia vita missionaria e professionale. Non potrò mai dimenticare quella gente innocente, ammassata in condizioni disumane nei campi profughi, costretta a subire pene indicibili per ragioni discriminatorie a sfondo religioso, ma anche legate al controllo dell’immenso bacino petrolifero presente nelle regioni meridionali del Sudan. Ricordo molto bene la testimonianza di tanti miei confratelli e consorelle comboniani che, nonostante il degrado in cui essi vivevano immersi a fianco della gente, riuscivano ad infondere sempre e comunque un messaggio di speranza. Per così dire, nel nome di Dio, erano riusciti ad ottimizzare il caos di un popolo dimenticato da tutto e da tutti. Per queste ragioni ebbi modo di gioire quando nel gennaio del 2005 fu siglato a Nairobi, in Kenya, l’accordo di pace tra il governo di Khartoum e i ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla). Ero convinto che ormai il processo di riconciliazione, per quanto ancora in divenire dal punto di vista attuativo, fosse irreversibile. Il pacifico svolgimento, lo scorso anno, della consultazione referendaria che ha sancito la nascita della Repubblica sudsudanese, 54mo Stato africano, confermò le mie convinzioni. Ma devo riconoscere – credetemi, lo scrivo con grande amarezza – che il mio e quello di tanti altri osservatori, è stato un grossolano errore di valutazione. In effetti, per quando la pressione internazionale fosse altissima sia su Khartoum che su Juba, è stata sovrastimata la capacità di fare politica da parte della nomenclatura suddista. Si trattava d’inventare di sana pianta uno nuovo “Stato” nel Sudan meridionale. Non solo in termini amministrativi e infrastrutturali, ma anche e soprattutto politicamente. A parte il rischio che le formazioni partitiche del Sud, col tempo, assumessero sempre più una connotazione etnica, il vero collante era e rimane costituito dagli ex ribelli dello Spla che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di Nairobi, hanno amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, lo Mpla. Una realtà estremamente complessa e articolata, caratterizzata da una gerarchia piramidale, al cui interno sono rappresentate, con qualche vistoso discrimine, piccole e grandi etnie, dai Denka ai Nuer, dagli Shilluk ai Toposa. Sta di fatto che questi signori hanno tradito il mandato che avevano ricevuto dalla loro gente, mettendo a repentaglio la credibilità della nascente nazione sud sudanese. Per carità, il governo di Khartoum ha le sue gravissime responsabilità nella crisi in atto col Sud, ma era nota a tutti la sua spiccata indole provocatoria e il governo di Juba è caduto nella trappola tesa dal nemico di sempre. Per comprendere questo ragionamento, basterebbe rivedere il filmato mandato in onda da Aljazeera nel quale si vede il governatore del Sud Kordofan, Ahmed Harun – già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur – arringare le truppe impegnate contro i sudisti, ordinando ai soldati di non fare prigionieri. Di fronte all’escalation di violenze di questi giorni hanno davvero fatto bene i vescovi sudanesi a definire “vergognoso” il nuovo conflitto, accusando i due contendenti per le sofferenze che stanno infliggendo nuovamente alla popolazione civile, già stremata da decenni di guerre. E nel loro comunicato, non è marginale il fatto che i presuli abbiano stigmatizzato l’atteggiamento sprezzante e ostinato mostrato dal presidente sudsudanese Salva Kiir verso la comunità internazionale che – ricordano i vescovi – ha sostenuto il popolo del Sud Sudan nella sua lotta per l’indipendenza e contro l’ingiustizia. La scelta della pace è certamente la via più difficile, ma è quella più sicura per la prosperità, ed è per questo motivo che tutti, ma davvero tutti, dovrebbero avere l’ardire di operare un sano esame di coscienza. Anche cinesi e americani che da quelle parti hanno osteggiato, in riferimento al business degli idrocarburi, un’etica prevalentemente utilitaristica, anteponendo in questi mesi i loro interessi particolari, di cui i due Sudan sono ignominiosamente latori.
19/04/2012 - Fonte: Vita.it (19/4/2012)

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